Pavel Florenskji, nella poco estiva, ma interessante raccolta di saggi “Il valore magico della parola”, definisce il simbolo come: “ una realtà che è più di se stessa”. Segue una precisazione un po’ meno fruibili, che però completa il senso delle parole “esso è un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che però si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza”.
La nostra è diventata una società prettamente simbolica, all’uso della parola si è, infatti, preferito l’uso dell’immagine, ossia il simbolo della parola, la realtà che è più di se stessa. Un esempio? I giornali. Un tempo era il luogo deputato alla parola; oggi le parole sono sfrattate da una pagina a un’altra, lasciando sempre più spazio a immagini e fotografie pubblicitarie, e non solo.
Immagini, simboli, video, per dare un di più, quello che nel marketing è chiamato valore aggiunto. E così, può anche capitare che una sera di mezza estate, una persona si fermi davanti a un esercizio commerciale dai vetri oscurati a guardare incredula un video che passa immagini silenziose. Un filmato in bianco e nero, che mostra immagini di un corteo preceduto da un carro trainato da buoi, seguito da un prete con tutti i paramenti in pizzo, un numero imprecisato, di pretini in miniatura, i chierichetti, e una folla indefinita, che nonostante il bianco e nero, sembra particolarmente scura, nera, monocromatica. Il filmato prosegue, con un breve stacco, e la scena si è spostata in un cimitero durante la tumulazione e la benedizione di una bara, un prete, con i colori un po’ giallini tipici degli anni sessanta, stringe le mani e abbraccia persone tristi dai volti tirati.
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