venerdì 30 novembre 2007

Regali di natale, A B o C?



…ma ha girato e conosce la gente e mi dice: stai attento che resti fuori dal gioco se non hai niente da offrire al mercato…


Ieri mattina ho avuto un incontro ravvicinato con il direttore, e come spesso accade i miei incontri con la direzione in realtà sono scontri e incomprensioni. Le premesse erano buone, mi stavo comportando bene, avevo i capelli in ordine e ben pettinati, sorridevo con garbo in segno di approvazione, annuivo silenziosa e compita, e indossavo anche abiti femminili. Un piacevole spettacolino, da consumata attrice ero impegnata nella parte del dipendente del mese. Ma come in tutti gli spettacoli a braccio l'andamento del copione è spesso imponderabile.
Dopo aver stabilito e trovato diversi punti di contatto e aderenze, stavo uscendo per mettermi al lavoro, quando a trabocchetto sono stata interpellata sui regali di natale per i dipendenti.
Penso che un po' tutte le aziende abbiano una suddivisione nella tipologia dei regali, comunque nella azienda dove lavoro i regali sono suddivisi per tipologia: tipo A-B-C-D, dove A è il regalo top, mentre D, come si può evincere anche dalla lettera, il regalo per il dipendente.
Nel regalo A lo scorso anno c'era una bottiglia di Morellino di Scansano, un pezzo di parmigiano, un panettone artigianale, altre leccornie e poi un riproduttore di musica mp3 (quello di marca, molto di tendenza e molto costoso), via via, il contenuto andava scemando e nel pacco di tipologia D c'era un pandoro o panettone, a scelta, semplicemente imbustato e fabbricato in Cina (che fosse made in China si capiva fin troppo bene dal vago sapore di fritto e di salsa di soia), una bottiglia di metanolo travestito da vino bianco con le bollicine, una scatola di fichi secchi e 3, dico 3 non perchè voglio essere cinica ma perché corrispondeva al numero esatto, barrette quelle con più latte e meno cacao.
Da bianco natale a natale in bianco.
La consegna del pacco è stata accompagnata da grande cerimonia con tanto di gran ciambellano e saltimbanchi, un sobrio discorso di circostanza sottolineato da uno spontaneo applauso finale, e qualche occhio lucido di commozione "quanto siamo bravi", "quanto siamo generosi", "Grazie! Grazie!", "troppo buoni!"
Finita la pagliacciata, un po' intimoriti, senza dare nell'occhio, qualcuno osò aprire il pacco; il dubbio era: aprire o aspettare il giorno di natale per godersi la sorpresa?
Alla fine, in tutti prevalse la curiosità, subito seguita però dal disgusto, da quel vago senso di averlo preso… male, molto male.
Soprattutto quando una quindicina di eletti sfoggiarono, senza vergogna, davanti ai paria, salmone norvegese, caviale, e gli altri prodotti del pacco A.
Ma torniamo alla domanda trabocchetto di ieri: "cosa pensa se anche quest'anno proponiamo agli schiavi, ops ai dipendenti, il pacco dello scorso anno?"
In un primo tempo avevo capito che c'era l'intenzione di riesumare dal magazzino gli eventuali pacchi avanzati dallo scorso anno, e ho pensato a una strategia di rapida e drastica riduzione del personale. Riordinate le idee, ho rivissuto lo spettacolo degli occhi tristi dei miei colleghi (miei compresi), la delusione dei più giovani, l'abituale frustrazione dei più anziani davanti al pacco dono. Ho riassaporato tutte le amarezze di quel giorno di quasi festa, e soprattutto ho ricordato lo sguardo d'odio del mio portiere, quando gli ho riciclato il pacco, e l'azione di sabotaggio che mise in pratica nei miei confronti per tutto il mese di gennaio.
E timidamente ho fatto una controproposta, perché non raccogliere i soldi, non tanti soldi per la verità, destinati "al budget regali serie D" e fare una donazione a qualche onlus?
In fondo quel panettone e quella bottiglia di vino non fanno la differenza, mentre magari l’importo può servire a qualcosa di importante e nobile (niente fiori, solo opere di bene).
Il sorriso da babbo natale, clemente e pietoso, forzatamente tenuto sulla faccia del direttore si è trasformato a quelle parole in un ghigno da vampiro pronto a succhiare il sangue alla sua vittima (animo umano così falso e meschino!).
“Qui si sbaglia; i dipendenti si aspettano il regalo. Il panettone e la bottiglia di vino fanno la differenza per il dipendente che guadagna 1000 euro al mese”. E da lì, è partito lo sproloquio di un’analisi di economia domestica, il conto della serva in stile Economist, la lezione del buon padre di famiglia su come tirare la cinghia (peccato che il rapporto stipendi messi a confronto sia 9 a 1).
Non mi è sembrato il caso di proseguire nelle mie ragioni, e ho tagliato la corda grazie anche a un’importante telefonata che mi era arrivata in quel momento.
Però credo, anzi, scusate la presunzione, so cosa si aspetta il dipendente da 1000 euro al mese, e allo stesso modo so che un panettone e una bottiglia di vino di terza categoria, distribuiti con lo stesso entusiasmo di quando viene diagnosticato un hepers nella zona genitale, non fanno la differenza.

Catene di S.Antonio



Una volta si chiamavano Catene di Sant Antonio ed erano una tantum. Oggi i nomi sono vari, da generico MESSAGIO, a un più internazionale Have a blessed day, sino al classico No Subject; e ogni giorno sono almeno due o tre.
Il primo che ho aperto questa mattina mi ha messo di buon umore, se ne gustava la veracità artigianale. Ho pensato di condividere il pesce pisellone (quello riportato nella foto) con tutti quelli 'che je rode quarcosa'.


Hai appena ricevuto il pesce pisellone. Questo ti portera' gioia e fortuna scacciando via disagi, fastidi, seccature, noie e grane ( anche fiscali ). Se lo mandi a 5 altri amici tutto andra' bene. Sembra che il pesce pisellone scacci i rompiballe, rompi maroni , esauriti, cocorite, emorroidi, emicranie, gastriti e quant'oltre ve rode !!

mercoledì 28 novembre 2007

Tricologia



Uno dei tanti misteri che avvolgono l’esistenza dei mortali è: perché gli uomini si tingono i capelli? Mentre i primi capelli bianchi (e sicuramente i secondi e i terzi) nelle donne invecchiano, fanno subito vecchia zia, e quindi si corre ai ripari; l’uomo brizzolato è affascinante, comunica sicurezza, esperienze vissute.
I capelli grigi sulle tempie hanno effetto erotizzante, il brizzolato “fa sangue”.
Sia ben inteso, non è il capello brizzolato in se a suscitare fantasie erotiche, mi spiego, il brizzolato di Pacciani era tanto appassionante quanto una colonia di processionarie.
Oltre al capello deve esistere un contorno almeno almeno interessante.
Però nei casi limite, e anche nei casi disperati, un uomo con i capelli grigi non disturba, rimane al suo, decoroso e dignitoso, posto di essere umano.
Invece gli uomini che si tingono i capelli, hanno tutti la stessa tinta, la stessa nuance, la stessa sfumatura. I capelli tinti degli uomini sono tutti del color “Pippo Baudo”, non saprei altrimenti come definire, il marrone pantegana, che si portano in testa.
Dopo la beffa ulteriore danno, il colore è accompagnato anche da una morbida cotonatura che fa tanto ballerina attempata di seconda fila (non ne ho la certezza, ma per me, c’è anche una spruzzatina di lacca che fissa il tutto).
Perché ridursi così? Pensata alla famiglia, e se è proprio la famiglia che vi ha portato a tanto, pensate a chi vi sta intorno.

martedì 27 novembre 2007

Shopping

Sabato pomeriggio, ero per le vie del centro con un amico, passeggiando e chiacchierando, senza una meta precisa, poi, tra un passo e un altro, ho notato più traffico pedonale del solito e tante buste eleganti e colorate, molte più abbondanti di un solito sabato pomeriggio, portate a spasso per la città.
Come ho fatto a non pensarci prima, è iniziato la corsa allo shopping natalizio.
Mi chiedo da quando si è iniziato a parlare di shopping, qual è stato l’evento scatenante che ha introdotto questa nuova parola, e di conseguenza anche l’idea?
Non ricordo che mia madre mi abbia detto: “Oggi sai che si fa? Si va fare shopping!”, anche con le mie amiche al massimo sono andata “a fare compere”.
E fare le compere era relegato a spazi temporali ben precisi, con cadenze più o meno stagionali: l’autunno per l’acquisto del necessario per affrontare l’inverno, e in primavera, quando si era più o meno legittimati a mettere nel “sacco per i ciechi” (chissà che cosa mai avranno fatto i ciechi con i vestiti smessi) le cose non più utilizzabili che potevano essere sostituite da nuove.
Altre buone occasioni per andare in giro per negozi era una settimana, al massimo due, prima delle feste, e per i compleanni.
Poi d’un tratto, l’acquisto di beni più o meno voluttuari è divenuto una vera e propria attività, una maratona, un impegno, una corsa a chi arriva prima, uno status, un lavoro. E ha cambiato nome, diventando shopping.
Questa trasformazione ha definitivamente segnato la netta separazione tra il passato, da quello che gli italiani erano stati prima, un popolo contadino e provinciale, e il futuro, un popolo che resta solo provinciale.
Non esistono più i riti legati all’acquisto di un prodotto, la necessità è stata soppiantata dall’avere, dal possedere, negozi e supermercati si sono trasformati in centri di sostegno psicologico, luminosi e accoglienti prozac che allontanano per un pomeriggio, una giornata, gli altri malesseri che ci portiamo dentro.
Ogni giorno, ogni ora libera sono un giorno e un’ora sprecati se non sono dedicati allo shopping, che è diventato il segno distintivo tra chi ha e dunque è, e chi non ha e non potrà mai essere.
Ma in fondo come diceva qualcuno: “meglio piangere in una mercedes, che essere triste a piedi”.

lunedì 26 novembre 2007

Tecniche di attracco

Ieri sera, mentre stavo aspettando l’autobus, completamente presa nei miei pensieri, sento una voce alle mie spalle. Voce maschile, non mi sembra di conoscerla, mi giro, vedo le labbra che continuano a muoversi, ma non ne ho percepito i suoni che sono emessi. Mi sembra educato chiedere cosa abbia detto, errore fatale!!!
“Sei qui da tanto?”. Questo è l’audio della domanda che non avevo recepito.
Sicuramente il mio sguardo da serial killer, gli ha suggerito la riformulazione in un:“Scusi, è da molto che aspetta il 46?”.
In questi casi la risposta non è importante, quello che importa è il tono, anzi il grugnito di guerra che fa riecheggiare un abominevole “NO”.
Era da po’ che non mi capitava di essere attraccata in questo modo, e pensavo fosse ormai una tecnica desueta, finita insieme agli ultimi film di Alvaro Vitali, Bombolo e Giovannona Coscia Lunga. Ma, se invece questa metodologia sussiste al passare degli anni, e delle mode, significa che ha una certa percentuale di successo; significa che qualcuno ha trovato la sua anima gemella, affinità elettive.
Per un po’ di tempo, mi sono sentita una calamita per casi umani, mi capitava di imbattermi in personaggi alquanto disturbati, che senza alcun motivo si sentivano in dovere di dare sfogo a tutto il loro repertorio di frustrazioni, logorrea, performance sentimentali.
Una volta, mentre stavo lavorando, una persona, che conoscevo perchè frequentava abitualmente il luogo di lavoro, più vicina ai sessanta che ai cinquanta, si avvicinò e mi disse che gli avevo ispirato una poesia. Dopo qualche giorno, mi venne a chiedere se avesse potuto leggermi la poesia, da me ispirata e a me dedicata, (altro errore fatale) gli risposi affermativamente. Passati altri giorni, si presentò con tanto di quaderno verde scuro, e sedutosi davanti a me, iniziò la lettura del componimento, che tralasciando l’argomento, che era ispirato alla mitologia del mio nome, e l’aspetto stilistico, era lunga oltre 30 pagine. Non so cosa si aspettasse da parte mia. Da quella volta cercai sempre di evitare anche solo lo sguardo.
Però l’episodio forse più eclatante, perché avevo coinvolto una specie di task force, per aiutarmi a identificare e smascherare l’autore, è di un paio di anni fa. Mettendo in moto la macchina per tornare a casa dal lavoro, una sera, trovai tutti i vetri e gli specchietti esterni scritti. “Ti amo” “Mi hai fatto male” “Io e te per sempre” “Ti voglio bene” “Non lasciarmi”. A distanza di tempo mi viene da ridere, ma quella sera, ne fui terrorizzata.
I giorni seguenti, sguinzagliaia tutti gli amici, che avevano preparato trappole, escogitato eventuali piani d’azione e soprattutto di fuga (non ho amici che fanno lotta greco-romana). Lo scrittore incompreso colpì altre due volte. Poi decise di cambiare macchina.
(I fatti sono un po’ diversi e più complessi. Fu fatta una denuncia. Però voglio ancora credere nella buona fede delle persone).

Techiniche di attracco

Ieri sera, mentre stavo aspettando l’autobus, completamente presa nei miei pensieri, sento una voce alle mie spalle. Voce maschile, non mi sembra di conoscerla, mi giro, vedo le labbra che continuano a muoversi, ma non ne ho percepito i suoni che sono emessi. Mi sembra educato chiedere cosa abbia detto, errore fatale!!!
“Sei qui da tanto?”. Questo è l’audio della domanda che non avevo recepito.
Sicuramente il mio sguardo da serial killer, gli ha suggerito la riformulazione in un:“Scusi, è da molto che aspetta il 46?”.
In questi casi la risposta non è importante, quello che importa è il tono, anzi il grugnito di guerra che fa riecheggiare un abominevole “NO”.
Era da po’ che non mi capitava di essere attraccata in questo modo, e pensavo fosse ormai una tecnica desueta, finita insieme agli ultimi film di Alvaro Vitali, Bombolo e Giovannona Coscia Lunga. Ma, se invece questa metodologia sussiste al passare degli anni, e delle mode, significa che ha una certa percentuale di successo; significa che qualcuno ha trovato la sua anima gemella, affinità elettive.
Per un po’ di tempo, mi sono sentita una calamita per casi umani, mi capitava di imbattermi in personaggi alquanto disturbati, che senza alcun motivo si sentivano in dovere di dare sfogo a tutto il loro repertorio di frustrazioni, logorrea, performance sentimentali.
Una volta, mentre stavo lavorando, una persona, che conoscevo perchè frequentava abitualmente il luogo di lavoro, più vicina ai sessanta che ai cinquanta, si avvicinò e mi disse che gli avevo ispirato una poesia. Dopo qualche giorno, mi venne a chiedere se avesse potuto leggermi la poesia, da me ispirata e a me dedicata, (altro errore fatale) gli risposi affermativamente. Passati altri giorni, si presentò con tanto di quaderno verde scuro, e sedutosi davanti a me, iniziò la lettura del componimento, che tralasciando l’argomento, che era ispirato alla mitologia del mio nome, e l’aspetto stilistico, era lunga oltre 30 pagine. Non so cosa si aspettasse da parte mia. Da quella volta cercai sempre di evitare anche solo lo sguardo.
Però l’episodio forse più eclatante, perché avevo coinvolto una specie di task force, per aiutarmi a identificare e smascherare l’autore, è di un paio di anni fa. Mettendo in moto la macchina per tornare a casa dal lavoro, una sera, trovai tutti i vetri e gli specchietti esterni scritti. “Ti amo” “Mi hai fatto male” “Io e te per sempre” “Ti voglio bene” “Non lasciarmi”. A distanza di tempo mi viene da ridere, ma quella sera, ne fui terrorizzata.
I giorni seguenti, sguinzagliaia tutti gli amici, che avevano preparato trappole, escogitato eventuali piani d’azione e soprattutto di fuga (non ho amici che fanno lotta greco-romana). Lo scrittore incompreso colpì altre due volte. Poi decise di cambiare macchina.
(I fatti sono un po’ diversi e più complessi. Fu fatta una denuncia. Però voglio ancora credere nella buona fede delle persone).

Tecniche di attracco

Ieri sera, mentre stavo aspettando l’autobus, completamente presa nei miei pensieri, sento una voce alle mie spalle. Voce maschile, non mi sembra di conoscerla, mi giro, vedo le labbra che continuano a muoversi, ma non ne ho percepito i suoni che sono emessi. Mi sembra educato chiedere cosa abbia detto, errore fatale!!!
“Sei qui da tanto?”. Questo è l’audio della domanda che non avevo recepito.
Sicuramente il mio sguardo da serial killer, gli ha suggerito la riformulazione in un:“Scusi, è da molto che aspetta il 46?”.
In questi casi la risposta non è importante, quello che importa è il tono, anzi il grugnito di guerra che fa riecheggiare un abominevole “NO”.
Era da po’ che non mi capitava di essere attraccata in questo modo, e pensavo fosse ormai una tecnica desueta, finita insieme agli ultimi film di Alvaro Vitali, Bombolo e Giovannona Coscia Lunga. Ma, se invece questa metodologia sussiste al passare degli anni, e delle mode, significa che ha una certa percentuale di successo; significa che qualcuno ha trovato la sua anima gemella, affinità elettive.
Per un po’ di tempo, mi sono sentita una calamita per casi umani, mi capitava di imbattermi in personaggi alquanto disturbati, che senza alcun motivo si sentivano in dovere di dare sfogo a tutto il loro repertorio di frustrazioni, logorrea, performance sentimentali.
Una volta, mentre stavo lavorando, una persona, che conoscevo perchè frequentava abitualmente il luogo di lavoro, più vicina ai sessanta che ai cinquanta, si avvicinò e mi disse che gli avevo ispirato una poesia. Dopo qualche giorno, mi venne a chiedere se avesse potuto leggermi la poesia, da me ispirata e a me dedicata, (altro errore fatale) gli risposi affermativamente. Passati altri giorni, si presentò con tanto di quaderno verde scuro, e sedutosi davanti a me, iniziò la lettura del componimento, che tralasciando l’argomento, che era ispirato alla mitologia del mio nome, e l’aspetto stilistico, era lunga oltre 30 pagine. Non so cosa si aspettasse da parte mia. Da quella volta cercai sempre di evitare anche solo lo sguardo.
Però l’episodio forse più eclatante, perché avevo coinvolto una specie di task force, per aiutarmi a identificare e smascherare l’autore, è di un paio di anni fa. Mettendo in moto la macchina per tornare a casa dal lavoro, una sera, trovai tutti i vetri e gli specchietti esterni scritti. “Ti amo” “Mi hai fatto male” “Io e te per sempre” “Ti voglio bene” “Non lasciarmi”. A distanza di tempo mi viene da ridere, ma quella sera, ne fui terrorizzata.
I giorni seguenti, sguinzagliaia tutti gli amici, che avevano preparato trappole, escogitato eventuali piani d’azione e soprattutto di fuga (non ho amici che fanno lotta greco-romana). Lo scrittore incompreso colpì altre due volte. Poi decise di cambiare macchina.
(I fatti sono un po’ diversi e più complessi. Fu fatta una denuncia. Però voglio ancora credere nella buona fede delle persone).

E' domenica mattina si è svegliato già il mercato...


Questa mattina finalmente ho rimesso piede a Porta Portese.
Inutile dire quanto mi piaccia andare in giro per mercatini rionali, mercatini stagionali, mercatini di natale, mercatini della frutta, ma a Roma ho due punti fermi: Porta Portese la domenica mattina e Piazza Vittorio una qualsiasi mattina. Porta Portese è il non luogo per eccellenza di tutti gli “stranieri” o di coloro che si “sentono stranieri” in questa città, perché se Porta Portese, tanti anni fa era il mercato dei romani, oggi è diventato il punto di riferimento di tutti quelli che vengono da fuori. E’ un modo come un altro per perdersi tra le facce di sconosciuti, odori mangerecci, oggetti, merci e voci, tante voci. Perché sembra paradossale, qui, non è importante quello che è venduto, che si può trovare più o meno ovunque, ma come viene offerto e proposto.
Perché a Porta Portese può capitare di sfrucugliare su una bancarella di oggetti e accessori finto etnici (lapislazzuli afgani, collane africane) e alzare gli occhi sul venditore rasta, che con parlata romanesca al cellulare lamenta i 5 chili acquistati durante le feste e chiede per il pranzo di oggi un semplice riso in bianco.
Oppure è possibile trovare diversi venditori di cibi calabresi, tutti molto piccanti, e specialità siciliane, tutte a base di mandorle e pistacchi, e un indiano che dà spiegazioni sulla preparazione casalinga del pesto con i pistacchi o del sugo con la ‘nduja.
Oggi che poi è un giorno di quasi festa, al mercato c’erano molti turisti, che si riconoscono immediatamente da un tipo di abbigliamento ostentato, così come ostentate sono una finta sicurezza nelle direzioni da seguire e una vera paura che qualcuno gli sfili il portafoglio o la borsetta; i venditori, per l’occasione, che hanno l’occhio esercitato e hanno fiutato le prede, hanno fatto prezzi, come dire, speciali. E un po’ è giusto perché i turisti dalle parti di Porta Portese sono visti come degli invasori, dei neofiti che vogliono entrare per forza in un mondo fatto di rituali, costruiti domenica dopo domenica. Così mentre gli viene affibbiata una tremenda fregatura a 150 euro, una coppia di sedie che si reggono in piedi per miracolo, si sente qualcuno nelle retrovie che commenta sarcastico.
L’aspetto più importante per apprezzare Porta Portese è di essere persone libere, completamente libere, e non essere spaventate dalla solitudine; camminare senza una meta precisa, ma soprattutto girovagare soli, secondo i propri ritmi e i propri gusti. La solitudine, infatti, permette di oltrepassare velocemente gli ingorghi umani (che vuoi per l’esiguo spazio, vuoi per il gran numero di persone, si vengono a creare) e guadagnare i piccoli pertugi disponibili nella prima fila delle bancarelle più invitanti.
Camminare tra le bancarelle di Porta Portese è un’esperienza che vale un viaggio, un viaggio catartico.
(foto di Porta Portese da 06blog.it)

È domenica mattina



Questa mattina finalmente ho rimesso piede a Porta Portese.
Inutile dire quanto mi piaccia andare in giro per mercatini rionali, mercatini stagionali, mercatini di natale, mercatini della frutta, ma a Roma ho due punti fermi: Porta Portese la domenica mattina e Piazza Vittorio una qualsiasi mattina. Porta Portese è il non luogo per eccellenza di tutti gli “stranieri” o di coloro che si “sentono stranieri” in questa città, perché se Porta Portese, tanti anni fa era il mercato dei romani, oggi è diventato il punto di riferimento di tutti quelli che vengono da fuori. E’ un modo come un altro per perdersi tra le facce di sconosciuti, odori mangerecci, oggetti, merci e voci, tante voci. Perché sembra paradossale, qui, non è importante quello che è venduto, che si può trovare più o meno ovunque, ma come viene offerto e proposto.
Perché a Porta Portese può capitare di sfrucugliare su una bancarella di oggetti e accessori finto etnici (lapislazzuli afgani, collane africane) e alzare gli occhi sul venditore rasta, che con parlata romanesca al cellulare lamenta i 5 chili acquistati durante le feste e chiede per il pranzo di oggi un semplice riso in bianco.
Oppure è possibile trovare diversi venditori di cibi calabresi, tutti molto piccanti, e specialità siciliane, tutte a base di mandorle e pistacchi, e un indiano che dà spiegazioni sulla preparazione casalinga del pesto con i pistacchi o del sugo con la ‘nduja.
Oggi che poi è un giorno di quasi festa, al mercato c’erano molti turisti, che si riconoscono immediatamente da un tipo di abbigliamento ostentato, così come ostentate sono una finta sicurezza nelle direzioni da seguire e una vera paura che qualcuno gli sfili il portafoglio o la borsetta; i venditori, per l’occasione, che hanno l’occhio esercitato e hanno fiutato le prede, hanno fatto prezzi, come dire, speciali. E un po’ è giusto perché i turisti dalle parti di Porta Portese sono visti come degli invasori, dei neofiti che vogliono entrare per forza in un mondo fatto di rituali, costruiti domenica dopo domenica. Così mentre gli viene affibbiata una tremenda fregatura a 150 euro, una coppia di sedie che si reggono in piedi per miracolo, si sente qualcuno nelle retrovie che commenta sarcastico.
L’aspetto più importante per apprezzare Porta Portese è di essere persone libere, completamente libere, e non essere spaventate dalla solitudine; camminare senza una meta precisa, ma soprattutto girovagare soli, secondo i propri ritmi e i propri gusti. La solitudine, infatti, permette di oltrepassare velocemente gli ingorghi umani (che vuoi per l’esiguo spazio, vuoi per il gran numero di persone, si vengono a creare) e guadagnare i piccoli pertugi disponibili nella prima fila delle bancarelle più invitanti.

Camminare tra le bancarelle di Porta Portese è un’esperienza che vale un viaggio, un viaggio catartico.
(foto di Porta Portese da 06blog.it)

Da magnifico a what else?

E’ un altro lunedì mattina, che fatica: svegliarsi, alzarsi, iniziare la settimana, prepararsi ad affrontare tutte le imprevedibili novità che riserverà il destino.
A proposito di novità, mi sembra di avvertire nell’aria un senso di sbandamento, mancano i punti di riferimento, sono venute meno le poche certezze che rassicurano la vita di ciascuno di noi.
Ho sempre più la sensazione che si viva in una condizione di eterna balia degli eventi, non si sa più a cosa e a chi prestare attenzione, altresì detto a quale santo votarsi.
Di certo la politica non aiuta: abbiamo visto politici, da prima, spalleggiarsi, seguire il motto reso famoso da Dumas uno per tutti, tutti per uno, ovviamente senza sé e senza ma; e poi ci si sveglia una mattina e tutti, giornali, telegiornali, giornalai, tirano fuori dal cilindro una nuova ideologia: quella della spallata.
La reazione di spaesamento è stata molto forte: Che cosa è? Dove si andrà? Sarà dolorosa? E’ il caso di andare al più vicino centro di traumatologia per avere spiegazioni su possibili effetti?
Il sentore di terror vacui si fa tanto più intenso quando, in attesa di capire quello che preparerà il futuro, distrattamente con la coda dell’occhio e la minestra in bocca, seduti di sghimbescio alla televisione, vediamo George Clooney, con tanto di sguardo “io si che la so lunga” che prepara il caffè a una tipa.
Ma come, non l’avevamo lasciato che in suo onore veniva evirato un toro di ghiaccio?
A questo punto la confusione è completa.
What else?

venerdì 23 novembre 2007

La maledizione del dialogo colpisce ancora




Ho preso in prestito il titolo di questo post da un articolo nella prima pagina del Riformista di oggi.

La mia passione per i dialoghi risale all’infanzia, quando mi trovavo costretta a leggere libri che non avevo scelto, ma mi erano stati imposti, e trovavo nel dialogo una boccata d’ossigeno, la parte più interessante, graficamente meno soffocante, e dinamica del libro.
Dialogare in fondo è parlare, comunicare, confrontarsi.
Nel dialogo esistono regole non scritte che i dialoganti stabiliscono da subito, dai primi sguardi, dalle prime battute si ha l’esatta percezione di dove si andrà a parare: se il dialogo sarà di pari livello, tra persone che hanno voglia di dare e ricevere; se il dialogo avrà una valenza prevaricatrice, tipico degli individui che amano ascoltare le proprie parole e la propria voce, o delle persone arroganti che non lasciano spazio; se il dialogo sarà una conversazione muta (immagino che riportato su un foglio di carta il dialogo muto sarebbe un ottimo incentivo alla lettura: pagine e pagine bianche). Però se è vero che del dialogo muto non si può scrivere, sul dialogo muto si può discutere.
Il dialogo muto è la più subdola e frequente forma di comunicazione, proprio così di comunicazione, adoperata in molti posti di lavoro.
La classe più colpita è quella dell’impiegato generico, di qualsiasi settore e dipartimento, cioè quel tipo di lavoratore che usa il computer e la posta elettronica nell’espletamento delle sue quotidiane attività e incombenze. Il sesso e l’età non sono rilevanti, in quanto sono colpiti indiscriminatamente
con la stessa incidenza donne, uomini, giovani e non più giovani.
I primi segnali che indicano l’affezione da dialogo muto sono sensoriali: nella stanza si odono solo sospiri, qualche sussurro, lallazioni o suoni gutturali, ticchettii frenetici e nervosi, matite battute ritmicamente sulla scrivania, e nel contempo scompare l’uso delle parole, del dialogo. Visivamente pervade un colore grigiastro, stampato sulle facce delle persone, con tanto di emiparesi e tic nell’area della bocca.
Il dialogo muto prevede la completa inibizione di una libera circolazione delle informazioni, di uno scambio.
La risorsa umana si riduce a dare e ricevere informazioni via email, e non per un qualche editto direttoriale, interdirettoriale, reale, ma semplicemente per un atteggiamento di paratio culis.
“con questa mail ti informo dell’andamento…” “volevo metterti a conoscenza di quanto deciso…” “si rende noto che...” “si avvisano tutti i dipendenti…” “ i lavori da fare entro la settimana sono…”.
Ma che cavolo, si sta a un metro l’uno dall’altro, ci si sottrae l’aria di piccole stanze degne di allevamenti di polli in batteria, si passa più di 1/3 della giornata come in fragili barchette esposte ai flutti dell’oceano, si condividono odori da quello del panino a quelli fisiologici molto meno piacevoli, si conoscono tutte i problemi di diarrea del bambino, di stitichezza personali e le corna messe al partner, ma nessuno usa più le corde vocali per parlare di quello che si sta facendo di quello che si deve fare sul posto di lavoro. Non una parola, come se comunicare a voce fosse una cosa sconveniente.
Meglio affidarsi alle mail, con tutte le sue infinite possibilità, dal cc al ccn.
Silenzio parla intranet.

mercoledì 21 novembre 2007

Tempi che passano


Tutto è iniziato con una notizia tra lo scandalistico e lo studio sociale di giovani ragazzine italiane che vendevano prestazioni sessuali per saldare i debiti di gioco di alcuni amici. Colpa dell'accesso, privo di controllo, ai giochi d'azzardo, colpa di un substrato culturale-famigliare disagiato, colpa della televisione e dei modelli proposti.
La notizia è stata approfondita, il giorno seguente, da un importante quotidiano, con i toni dello scaldaletto di provincia, dello spiato dietro la serratura, della rivelazione del 2007. E si scopre che, secondo un’indagine dell’associazione pediatri italiani, le ragazzine di 12 anni passano il sabato pomeriggio in discoteca. All'insaputa dei genitori!!!
Escono di casa vestite da educande e si trasformando in regine della trasgressione. Nei loro zainetti nascondono magliette trasparenti, minigonne con sottocoda in bella mostra, pronte a saltare sui cubi e trasformarsi in lap dancers.
Da queste postazioni di controllo e dominio, lanciano sguardi maliardi ai ragazzi, ma solo i più fortunati (o forse solo appetibili) potranno consumare il premio: un flirt veloce, sui divanetti della discoteca.
Come passano i tempi, ma questa volta non mi sembra che sia tanto cambiato l’italico costume degli adolescenti.
Intorno ai 13-14 anni, anni luce fa, qualche volta di nascosto, frequentavo una discoteca, la domenica pomeriggio (il sabato pomeriggio, allora, era solo un riferimento alla poetica leopardiana) dal nome conturbante: Alhambra.
La frequentazione e i frequentanti avevano trasformato il nome in un più popolare e confidenziale La Lambra.
La nuova etimologia nasceva dall'abitudine colloquiale di mettere l'articolo davanti a qualsiasi nome e dall'ignoranza del riferimento al palazzo moresco.
La Lambra era luogo di perdizione morale, il suo nome evocava vicende inenarrabili capitate ad amici di amici, quelle da raccontare a bassa voce; La Lambra era un covo di delinquenza, per chi lo frequentava non ci sarebbe stata una via di ritorno, ma solo una discesa negli inferi del vizio, della lussuria, della disperazione.
La fama del locale, da tempo, aveva oltrepassato i confini addirittura provinciali se non regionali.
Ovviamente i genitori non sapevano, non dovevano sapere, o forse sapevano e controllavano da lontano.
Ricordo ancora di una zia di mia mamma, oggi quasi centenaria, che una volta con il suo fare burbero e severo, tipico delle persone che avevano a che fare con la terra e con le bestie, puntò i suoi occhi nei mie e mi chiese “Tu non vai alla Lambra, vero? Sono tutte puttane le ragazze che vanno là”. Credo che il mio diventare rossa fosse stato interpretato più come un imbarazzo nel sentire la parola puttana, piuttosto che come una silenziosa ammissione di colpa, per aver messo piede in questa lupanara.
Comunque posso dire che La Lambra era solo un luogo nella fantasia degli adulti, di quelli che non ci hanno mai messo piede, dei cacciatori alle streghe e degli inquisitori.
Nei miei anni di frequentazioni (anch’io uscivo di casa acqua e sapone e poi mettevo rossetto, mascara e terra indiana - che oscenità io così diafana assumevo un colorito giallo ocra - e indossavo jeans tutti strappati sul sedere, ovviamente usando il bagno della discoteca come spogliatoio) ho visto solo qualche scontro fisico tra i soliti gruppi di diverse etnie (montanari vs marinelli), la solita rissa con gli amici che si trattengono l’un l’altro per evitare di farsi male: una specie di spettacolo con movenze che richiamavano un rito arcaico propiziatorio; ho visto qualche persona ubriaca vomitare quando andava bene nei bagni, altrimenti più o meno dove capitava; ho visto nuvole di fumo di sigarette reso più acre da quello di qualche canna; ho visto pomiciate più o meno spinte sui divanetti; ho visto le ragazze più spregiudicate al rimorchio dei tipi più fighi e ovviamente più grandi (voglio dire chi si sarebbe mai “messa” con un coetaneo brufoloso e tonno), esibiti come tronfeo di caccia alla fine del pomeriggio; ho visto corpi più o meno vestiti, ma in discoteca fa un caldo tropicale, ballare, muoversi con fare da pantera, in incontri ravvicinati che simulavano amplessi; ho visto i tardoni bavosi venire a caccia di carne fresca e tornare a casa con la coda tra le gambe…
E sono passata, incredibilmente, indenne attraverso tutti questi pericoli.
La storia della Lambra credo sia terminata più di una decina di anni fa, lo spazio destinato a luogo di divertimento, ha subito diverse trasformazioni; oggi se non ricordo male, ma non ne ho la certezza, dovrebbe essere, nientemeno che, una sala bingo. La triste fine di un mito.

mercoledì 14 novembre 2007

Mantenere le postazioni


Piove. I giornali avevano annunciati allarmati una brusca caduta delle temperature, che subito sono state definite siberiane (questa mania di definire tutto, di ridurre in schemi). E così questa mattina, il potere dell’informazione, molti hanno tirato fuori dai cassetti i maglioni con fiocchi di neve ricamati, i doposci stile abominevole uomo delle nevi, sciarpone che all’evenienza si trasformano nella coperta di nonna Abelarda.
Piove. Ma il freddo tanto annunciato e tanto temuto, alla fine non è arrivato. Stamani sono salita sulla navetta aziendale tutta sudata: avevo accelerato il passo per recuperare il ritardo, ma la stratificazione di vestiti, veramente eccessiva, mi faceva percepire il caldo di un mezzogiorno d’agosto.
Piove. In ufficio vige una strana atmosfera, le persone che di solito urlano e si incazzano, sono silenziose e pensierose; quelle che di solito sono remissive e operative, stanno digrignando i denti. Si respira l’aria che precede i grandi mutamenti.
Piove. Vorrei tanto starmene sotto le coperte a dormire, all’asciutto, potermi togliere le scarpe che si sono riempite d’acqua, e avere un te caldo con tanti biscotti. Ma bisogna “mantenere la postazione, fintanto che non sarete rimossi”.
Piove. Penso alle colline che circondano la casa dove sono nata e al loro colore quando sono bagnate, diventano di diverse sfumature di verde, dal verde bottiglia al verde petrolio, hanno colori che ti riempiono gli occhi e lo spirito, sembra quasi di respirarlo tutto quel verde.
Piove.

mercoledì 7 novembre 2007

Acqua e sapone

E lava, lava, lava… e sciacqua, sciacqua, sciacqua…
In fase digestiva, dopo una cena troppo abbondante, stravaccata sul divano, aspetto di vedere un filmone “La notte delle aquile”. Passa la pubblicità, e in genere durante la pubblicità non sfogo alcun raptus compulsivo del cambio canale, rimango semplicemente in stand by.
Soliti prodotti: gorgonzola con topolona, macchina che si sdoppia, poi inizia una musica e dei colori che identifico con una marca di calze, invece no. (ormai anche le pubblicità sono tutte uguali e omologate)
E’ un sapone intimo. Molto intimo, tanto intimo da essere accompagnato da alcune frasi che dovrebbero sottolinearne la bontà:
39 donne su 100 sono state tradite dal proprio partner
47 donne su 100 hanno tradito il proprio partner
per 100 donne su 100 c’è questo sapone.
Praticamente le parti intime qualsiasi situazione avranno la ventura di affrontare saranno ripulite e messe a nuovo dalla delicata schiuma del sapone intimo così generoso e di animo nobile.
E allora: .. e lava, lava, lava e sciacqua sciacqua sciacqua.

martedì 6 novembre 2007

Pelo e contropelo


Se con il precedente post avevo dato prova di quanto ero in grado di scendere in basso nei meandri dell’umana esistenza, con questo darò prova di come al fondo non ci sia limite (a proposito di meandri dell’umana esistenza, tra il riso e le lacrime, questa mattina una mia collega che ha la madre colpita da Alzheimer, mi raccontava che in questi giorni la madre ha iniziato a parlare dei colori dell’anima: la madre è convita di avere un’anima blu scura, quella della figlia è ancora in fase di determinazione; io mi attribuirei un’anima color indaco).
Ma non disperdiamoci in inutili panegirici, il menù di oggi prevede: la depilazione con il filo orientale.
Prima di entrare nel lasso spazio-temporale deputato al lavoro, mi faccio un bel giro di controllo delle mie mail, e questa mattina con ancora il sapore del caffè in bocca, leggo di questa nuova tecnica di estirpazione del pelo, e mi sono immaginata seduta sul pavimento intenta a farmi la ceretta con un filo interdentale. E’ stata solo un’immagine fotografica, perché ovviamente, come tutte le donne al mondo, sono perfettamente glabra nei famosi punti critici, e disconosco la funzionalità di rasoi, silkepil, cerette ecc., fatto è che mi interessava capire, per una mia più ampia cultura, e approfondire la notizia.
Quasi a metà articolo mi rendo conto che in realtà è il diario di un’apprendista estetista, una discepola che viene iniziata all’arte dell’estirpazione del pelo da una vecchia maestra orientale “avevo capito che la mia dedizione verso la ricerca del benessere andava oltre … e che la mia sensibilità di amante del naturale era molto spiccata”. Pura poesia, che racchiude insieme l’estetica e l’ontologia del pelo superfluo. Mossa da sì tanta delicatezza come resistere a una prova di depilazione trascendentale, il bulbo pilifero vissuto come un nuovo chakra, il pelo come un prolungamento cosmico della donna.
Sembrerà banale specificarlo ma il filo orientale richiede molta tecnica e pratica, e sa va sans dir non ha alcuna controindicazione. Nel diario la giovane apprendista annota lo stupore e la meraviglia della cliente ogni qualvolta applichi questa tecnica, incredule di come un semplice filo possa estrarre in maniera così precisa la radice del pelo e non provocare dolore.
Ho provato a capire come diavolo potesse succedere che un filo tolga un pelo e non so perché nella mia testa si apriva un viaggio mentale che partiva da mia mamma che taglia con un filo una torta da riempire con la crema, e arrivava alla voce odiosa di una persona che mi diceva che tento sempre di spaccare i capello in 4. E tra le righe del diario, ho scoperto, con mio sommo stupore, che il filo orientale è un semplice filo di cotone, però molto resistente. Le ultime righe di chiusura sono un’estrapolazione del diario, nel quale l’autrice (e chi meglio di lei?) declama la tecnica: “ Questo filo si mette fra le dita delle mani come una spirale ed una parte dello stesso è legata al collo di chi depila per poter fare leva ed estirpare i peli in qualsiasi parte del corpo si voglia operare.Esso ha il potere "magico" di estirpare il pelo dalla radice, portandolo nel tempo ad indebolirsi a tal punto da non farlo più ricrescere”.

La mia esaltazione mi porta a esclamare “Santa subito!!” però più laicamente propongo l’assegnazione del prossimo nobel per la scienza.

Per chi fosse interessato ad acculturasi questo è il link
http://www.bellezza.it/donne/est/inestet/destpel6.html