mercoledì 14 gennaio 2009

Mors tu, vita mea

Fino a quando non si arriva in una grande città, non si può avere la minima idea di cosa voglia dire fare la fila in un ufficio postale. Per me è difficile anche immaginare come potesse essere la situazione prime dell’introduzione dei famosi numerini: cadaveri ammucchiati davanti agli sportelli sopra i quali si accapigliavano vecchiette accessoriate di ombrelli dalla punta avvelenata; scaltre segretarie che anestetizzavano con un profumo fortissimo tutti coloro che occupavano in ordine sparso l’ufficio postale, ritrovandosi all’improvviso le prime della fila; omoni vestiti di scuro che con un colpo di panza o un rutto ben assestato sgombravano il campo da ogni essere vivente.
In confronto oggi la situazione sembra quasi paradisiaca, preso il numero, bisogna solo aspettare. Quanto? Questo è imponderabile, ma al riguardo esistono diverse testimonianze. C’è chi dice di aver iniziato e finito il Bartezzaghi, chi narra di aver preso il numero ed essere andata a fare una depilazione completa e poi essere tornata con tutta calma dopo aver approfittato anche della pedicure, chi racconta infine di aver recuperato quel tanto di sonno in più che tutti desiderano la mattina, addormentandosi sulla poltroncina delle poste ed essersi svegliato bello riposato giusto in tempo per spedire la raccomandata.
L’esistenza del numerino non sempre però è priva di rischi, infatti può provocare negli esasperati avventori (non tutti hanno con se libri, giornali, appuntamenti con l’estetista) una lugubre aspettativa, che si può riassumere nel detto latino mors tua, vita mea: la speranza che i possessori dei numeri antecedenti siano deceduti, colti da malore, o abbiano deciso di evadere il canone Rai. Sono sicura che le poste stesse, per evitare moti insurrezionali, alimentino questa situazione, con l’introduzione di numeri finti, figuranti dall’aspetto di iettatori, e nebulizzazione di profumo di crisantemo.

1 commento:

megat ha detto...

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