martedì 23 ottobre 2007

Un tranquillo viaggio di paura


Credo che la chiusura delle edicole nelle stazioni andrebbe sanzionata per le legge.
Fa parte delle azione abituali: scaricare il bagaglio dalla macchina, salutare, controllare il binario d’arrivo, incursione all’edicola per fare la spesa di giornali e riviste. Leggere in treno è l’unico rimedio per vincere la noia del viaggio. E trovare l’edicola chiusa per ‘RISTRUTTURAZIONE’ predispone male, getta le basi per un viaggio che si preannuncia sfortunato.
Ma, oltre all’assenza di un giornale da leggere nelle tante ore di forzata staticità, che cosa potrebbe rendere un lungo viaggio in treno ancora più pesante? Condividere lo spazio dello scompartimento con una famiglia proveniente dal paese del sol levante.
Da principio era solo una sorridente geisha, con uno zaino che copriva la luce, del sole e dell’illuminazione artificiale, e un trolley simile a un armadio quattro stagioni, che chiedeva se questo era lo scompartimento 11. Ma da lì a poco ho avuto l’esatta percezione che il viaggio non sarebbe stato per nulla noioso, infatti da dietro lo zaino comparirono due bambini di forse 4-5 anni e un marito con un bagaglio se possibile ancora più grande della consorte.
Il primo problema ovviamente è stato quello di sistemare i bagagli, impossibile dato il loro ingombro lasciarli in corridoio, molto difficile sistemarli sulle nostre teste. Dopo diversi inchini di scuse, dopo aver scalato più volte i sedili nell’intento di sistemarli negli appositi spazi, dopo breve consiglio familiare, hanno optato per la seguente soluzione: zaini sulle nostre teste, valige collocate davanti alla porta del bagno.
Risolta la situazione con una strategia vincente (l’accesso al bagno era impossibile) ha avuto inizio l’avvincente partita a scacchi delle collocazioni dei posti a sedere: prima da un lato madre e figlia, dal lato opposto padre e figlio, esaminato il contesto, hanno ritenuto che la disposizione fosse sbagliata, quindi hanno optato per i due bambini vicini con i genitori di fronte. Ritenuta anche questa mossa sbagliata, soprattutto perché i due piccoli visi gialli erano vicini a me, hanno pensato di mettere il babbo con la bambina, e la mamma con il pargolo; intanto il mio sguardo assente vagava fuori dal finestrino, ma come una spia russa grazie un sapiente gioco di specchi e riflessi tenevo la situazione preoccupantemente sotto controllo. Le due piccole cavallette gialle iniziarono a saltare sui sedili polverosi del treno, e come scimmie si arrampicavano sui porta pacchi sopra le nostre teste invertendosi di postazione con doppi salti mortali nel vuoto dello scompartimento.
I genitori sembravo piacevolmente compiaciuti e fieri della preparazione atletica dei figlioli, pronti a sostenere la parte delle controfigure di Kill Bill parte terza.
Ma saggezza popolare dice: “un bel gioco dura poco” e le due splendide creature consci di sì tanto sapere decisero che era arrivato il momento di togliersi le scarpe e lanciarle in aria, scegliendo come bersaglio o gli zaini o loro stessi.
Sembrerà incredibile a credersi ma gli ameni giochino erano accompagnati da allegre canzoncine degne di un impianto di amplificazione da discoteca.
La mamma leggermente infastidita dai rumori di sottofondo ha dato mandato al padre di intervenire, ma questo ha continuato a vedere i filmini delle vacanze e a fare fotografie alla carrozza del treno (forse erano spie che volevano copiare le nostre infrastrutture).
Minimamente intimoriti dalla severità dei genitori, i bambini hanno continuato a dare libero sfogo a tutto il repertorio canoro e ginnico. Per l’ora della merenda la mamma ha aperto una confezione di frutta disidratati che i bambini dal chimono d’oro hanno mangiato un po’ schifati, ovviamente senza interrompere la loro ipercinesia, lasciando tanti piccoli pezzi di frutta zuccherosa appiccicati alle poltrone e ai poggia testa.
Devastato a sufficienza lo spazio a loro disposizione, il campo di battaglia si è spostato nel corridoi: i seggiolini, quelli a molla, si sono trasformati in basi di lancio per salire sul poggia-mani del finestrino e fare dei veri e propri agguati alle persone che avevano la sventura di transitare nel corridoio.
Mentre la madre ogni tanto gettava un occhio ai bambini e provava anche a comunicare con loro, ricevendo per tutta risposta dei suoni simili a il soffio di un cobra, il padre si rendeva utile come una foglia di spinacio tra i denti, continuava con la sua aria da ebete a vedere tutti gli schermi che aveva a disposizione, cellulare, telecamera, macchina fotografica.
Penultima fermata, all’arrivo mancava poco meno di un’ora, io ero veramente stanchissima, e terrorizzata che saltassero sopra sia a me sia al mio modesto bagaglio. Stranamente mi rendo conto di un momento di silenzio e ho tanto sperato che il jet lag avesse fatto il suo corso, mi giro lentamente sperando di vederli catalettici i nei loro posti, ma i posti sono vuoti, mi rigiro verso il finestrino, mia unica via di fuga, e con la coda dell’occhio li vedo vicini, troppo vicini, alla leva del freno. Mi alzo e urlo con tutta la voce che riesco a tirare fuori, uno si spaventa e cade, l’altro invece allunga la mano verso quella leva dal colore così invitante. La madre con un balzo degno di Bruce Lee salta da seduta e con uno slancio della gamba tira giù la bambina prima dell’inevitabile.
Entrambi i bambini subiscono una punizione degna di un kamikaze della Marina Imperiale Giapponese, la mamma percuote con forza la mano di entrambi, e la mano deve rimanere, per tutto il periodo della punizione, bene aperta davanti a loro; ma l’umiliazione più pesante consiste nell’essere presi per il naso; prima uno poi l’altro subiscono sconcertati una tirata di naso.
Solo dopo qualche minuto, per evitare di incorrere anche io nelle punizioni materne, alzo gli occhi, e guardo il bambino che seduto davanti a me mi scruta con gli occhi fissi e carichi d’odio, e mi soffia con disprezzo. Speriamo che da grande non voglia mettersi alla ricerca di colei che osò umiliarlo durante un viaggio in treno, per consumare la sua vendetta.

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