Ogni volta che comunico a mia mamma che andrò qualche giorno da lei, entra in uno stato confusionale contraddistinto da episodi di frenesia e agitazione.
Non potrei mai farle un’improvvisata, ha bisogno di punti fermi, di solide certezze.
E così già dalla fine di novembre, ogni volta che ci siamo sentite telefonicamente, a volte anche tramite chat per interposta persona, ha iniziato a chiedermi quando, nel periodo delle feste natalizie, sarei andata a casa:
- Il 25 novembre mi chiese se il 24 dicembre avessi intenzione di prendere vacanza o fossi rimasta al lavoro.
- Qualche giorno la domanda che aspettava risposta era per quanti giorni mi sarei fermata.
- Un breve periodo durante il quale, è stata siglata una sorta di tregua armata, con nessuna domanda specifica, nessun riferimento all’argomento.
- L’8 dicembre, forse per l’associazione che festa chiama feste, è tornata alla carica, con la scusa di coordinare la mia salita con la discesa di mia sorella, e il quesito era: treno o macchina?
- A metà dicembre, con una tattica diversiva, dato che deve preparare il letto e la stanza per la settimana di Natale, ha provato a capire per quanti giorni avrei dormito da lei.
Nelle ultime telefonate, rassegnata e corrosa dall’incertezza se fosse stato il 22 o il 23 il giorno della mia venuta, è iniziata la seconda Intifada: “ Cosa ti preparo da mangiare quando arrivi?”
Devo dire, che la domanda cosa ti preparo da mangiare? ha segnato la mia infanzia, e la mia adolescenza. Credo che nel periodo della scuola obbligatoria, ogni mattinata, con la pancia sazia da una prima colazione nordica, mi veniva chiesto, nel momento esatto in cui stavo per mettere il piede fuori dalla porta, “Cosa vuoi oggi per pranzo?”.
Ma tornando al presente, la domanda “cosa ti preparo da mangiare quando arrivi?” perde la sua innocenza, quando, dopo solo due giorni, la richiesta si trasforma in una più articolata “Perché non prepari un menù per tutti i giorni che sarai qui?”. Ho risposto che l’avrei fatto.
Ma a distanza di oltre 36 ore, mi sento estremamente colpevole per non aver neppure pensato, e scritto, a un misero riso in bianco.
La mia reticenza nel dare risposte nasce, come in tutte le scelte della mia vita, da una profonda insicurezza nel prendere decisioni, alimentata altresì da un’instabilità esistenziale, nel senso più ampio del termine, instabilità costellata da sensi di colpa.
Vivo in un eterno stato di precariato personale e sociale, in una “incertezza dei bersagli” nel quale ho imparato a destreggiarmi, navigando a vista, giorno dopo giorno.
Profonda spaccatura generazionale.
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