giovedì 31 gennaio 2008

La fragranza del pane

Nel parlare comune, quando si vuol descrivere qualcosa di veramente buono, genuino, di indispensabile, si usa come parametro di riferimento il pane.
Buono come il pane, è per indicare una persona sulla quale si potrà fare sempre affidamento; ma anche pane al pane, vino al vino, niente di più lontano da periodi come questo, frutto di eterni compromessi; come diceva mia nonna prima o poi troverai pane per i tuoi denti, una profetica minaccia; o la tanto rivalutata saggezza contadina che propone pane e formaggio cibo da saggio, concludendo con il mistico e filosofico Non di solo pane vive l’uomo.
Stamattina, mentre camminavo, percorrendo stradine alternative, per arrivare al punto di raccolta per il lavoro, ho imboccato un nuovo vicolo, attratta dal profumo di pane appena sfornato. Era un piacere dei sensi, sentivo i miei piedi saltellare, come quelli di Neil Armstrong sulla crosta lunare, sopra morbida mollica bianca appena sfornata, i recettori olfattivi erano coinvolto in un’orgia dionisiaca-carnacialesca.
Allungando il passo, sono arrivata davanti all’entrata del forno dove quattro omaccioni tutti infarinati, si passavano sacchi pieni di pani da caricare su dei furgoni per le consegne parcheggiati dall’altro lato della strada. Vuoi la mia irresistibile presenza, vuoi la stanchezza, mentre stavano attraversando la strada si è rovesciato spaccandosi un saccone di pane. Che disastro. Che profonda tristezza. Milioni di persone che muoiono di fame, e ora qui in questo momento, tutto questo pane alla malora.
L’azione che ne è seguita ha dell’incredibile. Con estrema velocità e con altrettanta indifferenza, hanno raccattato il pane dall’asfalto ridistribuendolo dentro agli altri sacchi. Un attimo dopo sulla stradina erano rimasta solo briciole e farina.
Questa sera niente pane.

mercoledì 30 gennaio 2008

Corsi e ricorsi

Questo fine settimana dovrò partecipare a un corso di formazione sulle nuove dipendenze; sarà sicuramente un weekend entusiasmante, visto che il corso contempla anche le intere giornate di sabato e domenica. E io che mi pensavo di fare non una, ma ben due belle dormite.
Esulando da quelli che dovrebbero essere i mie interessi nello specifico del corso dei prossimi giorni; che cosa crea dipendenze oggi?
Al primo posto metterei, senza ombra di dubbio, internet, non tanto il computer come strumento, ma proprio internet come applicativo. Sebbene riesca a vivere più di qualche giorno senza crisi d’astinenza alcuna, mi chiedo come abbiano potuto sopravvivere generazioni e generazioni di classe impiegatizia senza la repubblica e il corriere on line. Una vita d’inferno. Strettamente connessi a internet sono le e-mail in tutte le loro declinazioni, dalla e-mail classica, all’e-mail interna, arrivando agli instant messengers.
Al secondo posto il cellulare. Io fortunatamente appartengo alla generazione che, quando diceva di essere a casa dell’amica, i genitori si facevano qualche scrupolo a chiamare sul telefono di casa dopo una certa ora per indagare se ero veramente a casa o in giro; e appartengo, sempre alla stessa generazione, che i fidanzati chiamavano all’ora stabilita sul telefono fisso, e dopo, era terra di nessuno. Oggi, dopo più di dieci anni di cellulare, non sopporto quelli che mi chiamano senza un motivo preciso, quelli che mi chiamano almeno tre volte di seguito, e su via, se non mi va di rispondere non rispondo e non sono tenuta a dare spiegazione alcuna, quelli che dicono di avermi chiamato quando non è vero. Preferisco chiamare ai numeri fissi, usare la cara e vecchia cornetta, e parlare quando nessuno altro mi ascolta, eccetto la persona con la quale sono al telefono.
Terzo posto macchina/motorino. Nel palazzo dove abito ci sono famiglie composte da tre persone che possiedo tre macchine e tre motorini, con conseguente problema di parcheggio, e sceneggiate raccapriccianti che chiamano in causa sempre o il portinaio o l’amministratore: vicini che per dispetto si rigano le macchine a vicenda, o badanti che vengono lasciate durante tutto il giorno a custodia del parcheggio. E la mattina, quando percorro a piedi i 3 chilometri per raggiungere la navetta che mi conduce al lavoro, vedo tante persone ferme in fila dentro le loro lattine a motore, una persona una macchina, una persona una macchina, una persona una macchina, tutti in fila, anche per percorrere il giro dell’isolato.

Le soluzioni di come uscire da queste forme di dipendenze, ovviamente, dopo il corso formativo, altrimenti come potrei giustificare le mie alzatacce di sabato e domenica.

lunedì 28 gennaio 2008

Avevo un post

Avevo un post sulla punta delle dita, pronto per essere scritto. Poi è successo che mi hanno distratto con una disquisizione sul confronto calorico tra un panino con la bresaola e uno con il philadelphia, conversazione che mi ha visto chiamata in causa, possibile che non si possa neanche più mangiare in santa pace.
E mi sono dimenticata di quello che volevo scrivere, un vuoto; ho anche provato ad andare a ritroso nel tempo, cercando di inanellare i pensieri che mi giravano in testa, prima dell’interruzione. Ma non è stata cosa. Dimenticato.
Quello che volevo scrivere rimarrà per sempre nel limbo dei post mai scritti, o di quelli cancellati inavvertitamente. C’est la vie.

domenica 27 gennaio 2008

Giorno della memoria

Oggi nel giorno della memoria vorrei ricordare mio nonno materno, il nonno Ciccà.

Il nome che l’ha apostrofato sino all’ultimo dei suoi giorni, Ciccà appunto, era il nome che gli fu dato da partigiano, l’altro nome era Bruno. Però come Bruno non lo conosceva nessuno, neanche le sue nipoti, io e mia sorella, per noi è stato e sarà sempre nonno Ciccà.

Forse, avrebbe preferito un nipote maschio per trasmettergli il lavoro che esercitò, con tanta passione, quello di idraulico, invece ebbe me, che quasi tutti i giorni, dopo la scuola, lo raggiungeva in officina e, con l’impegno tipico dei bambini, provava ad applicarsi ma con scarsi risultati, facendo più danni che altro.

D’inverno, in officina faceva freddo e stavamo davanti a una stufetta a carbonella a riscaldarci e a parlare, mi raccontava dei suoi lavori, dei miei bisnonni, della guerra; d’estate invece, fatta una certa ora, usciva dall’officina e andava all’osteria di fronte casa a giocare a carte e bere vino, attività che amava in ugual misura. L’osteria non era certo un posto per donne e tanto meno per bambine, però io ero autorizzata a frequentarla in virtù del fatto che ero la nipote di Ciccà, ma giusto per il tempo di stare un po’ alle sue spalle e vedere le carte che aveva in mano e di prendere il gelato per me, per mia nonna e mia mamma.

Il nonno Ciccà non aveva la macchina, si spostava solo con la moto guzzi, e più tardi, quando divenne più vecchio, con la vespa bianca, credo che questo suo prediligere le due ruote, anche sotto la pioggia “tanto c’è il parabrezza” fosse una scelta di vita, quel tipo di scelte che ti portano a percorrere le strade meno facili.

Era bello starlo a sentire quando raccontava della guerra, si vedeva che aveva creduto in un ideale, e, per questo ideale aveva scelto la famosa strada meno facile, era andato sui “monti” con i partigiani. Ascoltarlo mi faceva vedere le scene delle loro camminate sui monti, il nascondersi, vivere alla macchia, attraversare la linea gotica, e poi mi diceva di quando la casa della nonna, allora non ancora sua moglie, era stata occupata dai tedeschi, e lei aveva dovuto ritirarsi al piano di sopra con il fattore sua moglie, e suo nonno, e lui era molto preoccupato a saperla laggiù.

Il nonno Ciccà dovette rifugiarsi per un periodo in Francia, di questa storia è rimasto il nome francese che poi, a guerra finita, dette a mia mamma.

E’ morto che avevo dodici anni, quindi i suoi racconti sono un po’ sfumato, vaghi (a volte ho paura di perderli, di dimenticarne i particolari); quello che invece ricordo è che il nonno non ha mai parlato della guerra per vantarsi delle sue imprese, anzi in alcune occasioni i suoi occhi diventavano più lucidi e sembravano tenere per sé cose che gli avevano fatto male. Perché sono sicura che uccidere i nemici, anche se era la guerra, per persone come il nonno Ciccà sia stata una scelta dolorosa.

Il nonno Ciccà ha vissuto e combattuto per un ideale, per lasciare un mondo migliore a me e a mia sorella. Speriamo che qualcuno se ne ricordi sempre.

venerdì 25 gennaio 2008

Senza titolo

Oggi non mi va tanto di parlare. Preferisco rimanere nel mio brodo, per evitare di trattare male o litigare con qualcuno.
Non so cosa aspetterà a questa povera patria di
“gente infame, che non sa cos'è il pudore,si credono potenti e gli va bene quello che fanno;e tutto gli appartiene.Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni”.
Seppur per agone politico non giustifico, meglio non tollero, quelli che festeggiano. Che dovrebbero spiegarmi quale sia il senso, il valore, di questo festeggiare.
La storia conserverà le immagini di buffoni che si riempiono la bocca di mortadella o che si mettono ad aprire bottiglie di spumante dentro al senato. (ché loro dentro al senato possono metterci piede, mentre quando qualche anno fa, Sara provò ad avvicinarsi all’entrata del senato per dare un’occhiata al cortile che aveva sempre visto in televisione, per poco non arrivarono i marines).
Come cittadina prendo atto di quanto successo: è caduto il governo.
Perfetto, ma da domani mattina, credo di avere il diritto di non vedere più, in televisione o sui giornali, nessuna delle facce, siano della maggioranza siano dell’opposizione, che hanno giocati a carta vince carta perde alle spalle mie e di tutti gli elettori.
E’ caduto il governo sia fatta tabula rasa.

giovedì 24 gennaio 2008

C’è vita su marte?



Ieri le immagini di una figura antropomorfa rilevata sul pianeta marte, hanno scatenato le fantasie dei poeti e dei sognatori oltre a qualche dicerie da centro commerciale.
E se c’è vita su marte, perché non dovrebbe esserci vita sul mio davanzale?
Ieri sera, certa di questa consapevolezza, ho conservato il nocciolo dell’avocado, che avevo usato per prepararmi l’insalata, e sono andata su internet per avere istruzioni del suo uso sul piano giardinicolo.
Ricordavo di aver visto delle strane impalcature che tenevano sospese sopra vasetti di vetro pieni d’acqua dei noccioloni fronzuti, ma avevo bisogno di nozioni precise.
In un sito inglese (http://www.gardenweb.com/), che esordisce con un incoraggiante e beneaugurate: non c’è nulla di più divertente che far crescere da soli il proprio albero di avocado, ho trovato, quello che serviva per iniziare la mia piantagione casalinga.
Me lo sento, questa è la volta buona, posso dire superati i precedenti pianticidi, e come scrive quello che è diventato, da ieri, il mio sito tutelare, tra quattro anni potrò gustare morbidi avocadi colti direttamente dal mio albero.

mercoledì 23 gennaio 2008

Quasi sillogismi

I mie esigui, ma attenti lettori, mi hanno fatto notare che qualche giorno fa:
Ho preso un coro per le corna. Sicuramente siffatta azione non è da tutti.
Per tanto:
La notte tutte le sacche sono grigie.
E “Una donna senza profumo è un donna senza futuro” Coco Chanel dixit (Corriere della Sera )
Ma nella pagina di seguito:
Profumo “Il caso Sicilia è risolto”

martedì 22 gennaio 2008

Dubbio



Non è stato un belvedere, ma ieri sera ero particolarmente stanca, e il palinsesto televisivo al mio rientro non è che offrisse tutta questa scelta.
Comunque, ho acceso la tv e mi sono vista il faccione di mastella che parlava, poi la telecamera ha staccato su bruno vespa, che stava ad ascoltare, e poi di nuovo ha inquadrato mastella che parlava.
Mi sono chiesta: non è che mastella e vespa siano parenti? Hanno una marcata somiglianza.
Li direi fratelli, o quantomeno cugini di primo grado.

lunedì 21 gennaio 2008

Donne e motori



Lo sapete che ogni due anni bisogna fare revisionare l’automobile e rinnovare il bollino blu?
Poteva essere un giorno di gennaio come tanti altri, invece, dopo l’inaspettata rivelazione, quella della revisione, ho deciso di prendere il coro per le corna: trovare un’officina che faccia questo servizio.
Per gli ominidi che gravitano nei mie paraggi, si tratta di una cosa banale, “Ma che ci vuole! Vicino a casa tua ci sono almeno tre o quattro meccanici che fanno la revisione. Non devi fare altro che portare la macchina la mattina prima di venire al lavoro, e la fanno in mezz’ora” affermazioni inutili, tanto più perché intrise di sarcasmo, misto a maschile senso di superiorità, e pronunciate con tono di disprezzo e commiserazione.
Ma per una donna la revisione e il bollino blu sono situazioni impegnative, richiedono una certa preparazione emotiva e psicologica; da piccola non ho mai giocato con le automobiline, e ho preferito fare dell’altro piuttosto che stare a cercare, nei pomeriggi estivi, i buchi delle camere d’aria immerse in bacinelle piene d’acqua o montare e smontare le candele ai motorini.
Dopo un respiro profondo, mi decido a chiamare i numeri di alcuni garage che ho scaricato da internet. So già di partire in svantaggio, ho come la sensazione, anzi la certezza, che dall’altra parte del telefono appena sentono la voce di una donna, mettano il viva voce, e inizino a fare domande incomprensibili, per sganasciarsi dalle risate con i miei “Come? Scusi? Non lo so! È importante?”.
Anche intorno a me sembra di stare in un gigantesco viva voce, sono tutti in silenzio in attesa che apra bocca. Ominidi!
Dalla prima telefonata ho le informazioni essenziali, servizio: si o no, tempistiche, costi. In effetti è molto vicino a casa, posso lasciare la macchina questa sera e ritirla domani sera. Spinta dalla necessità di un orario di consegna e ritiro, più elastico, faccio una seconda telefonata a un’altra autofficina di zona e scopro una differenza di costi di 15 euro, mmmhhhhh, da 115 a 100: c’è da indagare.
Gli ominidi rimangono ammutoliti, non avrebbero mai pensato a una comparazione dei costi del servizio, i sorrisini sulle labbra si sono trasformati in rughe sulla fronte, segno di una qualche attività celebrale. E visto che ho imparato la terminologia corrente, da iniziato, molto più sicura di me, inizio a fare l’indagine. Un meccanico molto gentile, colpito dalla mia scienza, attacca bottone, e mi rivela che il 90% delle officine si limita a portare le auto da revisionare a un’altra officina adibita a questo tipo di lavoro, e che contattare direttamente queste ultime, senza intermediario, può abbassare il costo dai 100 -115 euro a poco più di 60.
Mi recita una lista (lista che morirà con me) con le officine che fanno direttamente la revisione, e scopro di averne una vicino all’ufficio. Chiamo, appuntamento per una qualsiasi mattina di questa settimana, costo solo 65 euro.
Gli ominidi ammutoliscono, sono esterrefatti, hanno coscienza della loro ulteriore inutilità.
(Nella foto: sono ritratta mentre spingo la macchina a fare la revisione)

Dei destini ultimi




I bagni pubblici non sono sicuramente luoghi da sogno, però sono indispensabili.
I bagni pubblici creano sempre un po' di imbarazzo, in un ambiente nuovo non si sa dove siano, e non si sa mai a chi chiedere (ah fata, secondo te c'ho la faccio dell'uomo del cesso?).
I bagni pubblici non esistono, bisogna sempre andare a chiedere in qualche bar.
I bagni pubblici hanno sempre o la tazza piena di carta igienica appallottolata o l'acqua non proprio cristallina.

I bagni pubblici aziendali rispecchiano, né più né meno, l'azienda stessa.
Certo, i miasmi che escono dalla sala mensa, durante la pausa pranzo, o il tramezzino tonno e pomodoro quotidiano, è scontato, che da qualche parte trovino la loro naturale via d'uscita. E può anche succedere che un povero diavolo non riesca a tenere duro per dieci-undici ore.
Ma che il direttore si presenti nel mio ufficio, durante la fase digestiva, e che rivolto al mio collega, in cerca di solidarietà maschile, lo renda partecipe della preoccupante e reiterata situazione del bagno, mi sembra veramente troppo. L’accaduto da leggenda, da voce di corridoio, si è trasformato in una vera e proprio caccia al colpevole, con tanto di “Riconosco l’odore, è sempre lui”.
Come dicevo, i bagni pubblici aziendali rispecchiano l'azienda, o meglio ciascuno ha i bagni aziendali che si merita, quelli della mia sono pieni di mer…

giovedì 17 gennaio 2008

Discorsi metropolitani



Metropolitana ora di uscita dagli uffici, c’è chi chiude gli occhi e sogna, e chi apre la bocca e parla.

“Appena sono arrivata in albergo, alla reception, ho incontrato un ragazzo di colore bellissimo”
“Cosa?"
"Ti stavo dicendo che quando sono arrivata a Parigi, alla reception dell’albergo ho visto un ragazzo di colore, un negretto, uno scuro, bellissimo”
“Eh sì da quelle parti ce ne sono tanti”
“Sì tanti e da tanto tempo, però sono belli, ti danno l’idea di pulito, di normale”
“Sì hai ragione, se devo tornare a Parigi vado nella zona del tuo albergo”
“Sì, sì”

Prossima fermata: …., uscita: lato destro.
Via il più veloce possibile.

mercoledì 16 gennaio 2008

I want you



Ovvero come conquistare tanti uomini…..in pochi minuti, per l’esattezza quattro, in meno di 10 minuti, e come essere additata pubblica molestatrice dai restanti, che invidiosi, non hanno ricevuto le mie attenzioni. Un simile record, non si può improvvisare così su due piedi, ma necessita di una lunga e studiata preparazione.
Per tutti coloro che fossero interessati, magari in cerca dell’altra metà del cielo, riporto la preziosa sequenza da eseguire il più fedelmente possibile, ma solo se si ha intenzione di ottenere il risultato sopra riportato.
Il primo passo è di fissare un appuntamento, per motivi strettamente lavorativi, qualsiasi altro motivo non è valido, con un esemplare umano del sesso opposto, che deve essere rigorosamente sconosciuto e mai visto prima.
Le telefonate che precedono l’incontro servono per fissare la data e il luogo dell’incontro “no qui mi torna scomodo” “possiamo anticipare di 15 minuti” “e se invece ci vedessimo…”.
Dimenticavo, per chi non ne fosse dotato naturalmente, può essere utile fingere un accenno di prosopagnosia, cioè la scarsa capacità di riconoscere il viso delle persone, per dare una parvenza di non voluto al tutto.
Comunque, fondamentale è l’ultima telefonata, poche ore prima dell’incontro:
“allora cosa ne pensi se ci incontrassimo davanti alla feltrinelli alle 19?” (la feltrinelli alle 19, è forse il luogo più affollato della città)
“ottima idea”
“tu come sei?”
“bellissima, scherzo ho un cappotto nero e un ombrello rosso”
“facile”
“eh, eh”
“io ho i capelli lunghi, ma comunque hai visto le mie foto sul sito”
“sì, non è un problema (bugia), e poi sarai distinguibile: uomo con custodia di strumento musicale”
“vero, allora ci vediamo dopo”
“ok a dopo”
Alle 19 precise, inizia la caccia all’uomo.
In mezzo a una marea di persone e facce sconosciute, ho un primo attacco di panico, non mi ricordo assolutamente la faccia della persona che sto cercando.

Riordino le idee, da lontano mi sembra di vedere una persona che non può che non essere che lui,
lo guardo,
mi guarda,
lo guardo meglio,
mi riguarda e sorride,
mi avvicino, è lui, “ciao m.? sono elena” “no mi dispiace non sono m., sono antonio, però se ti fa piacere possiamo conoscerci”, eppure sembrava troppo lui.
Riprendo il mio giro di perlustrazione, guarda qua, guarda là, vedo un tizio anche lui in cerca di qualcuno, potrebbe essere, mi avvicino “m.n.?” “è la parola d’ordine per qualcosa?” “no, credevo fossi la persona con la quale avevo appuntamento” “allora, ti va se prendiamo qualcosa da bere durante l’attesa?” “௯ஔஜ un’altra volta”. Terzo tentativo, a un passo dalla tragedia, mi rendo conto che la persona che stavo fermando era una donna. Nulla di fatto, altra passeggiatina, avanti e indietro, quando mi fermo sento uno sguardo fisso su di me, l’avrei detto diverso, forse più…, non so, dalla foto mi sembrava diverso, sorrido, lui si muove verso di me, che signore “è un po’ che ti stavo guardando, sei di queste parti?”.
Ricevo un sms “sono all’entrata della libreria”, scappo. Piove e sulla porta, ci saranno una trentina di persone in cerca di riparo, guardo e l’unico che mi ricorda la persona che dovevo incontrare... ha la barba, strano non avevo fatto caso nella foto che avesse la barba, comunque stendo davanti a me una mano estremamente fredda e bagnata “finalmente m.n.” dall’altra parte un sorriso che mi dà sicurezza, è lui:“appuntamento al buoi?” “noooooooooooooooooooooooooooooooo”.
Dalle retrovie dell’entrata super affollata compare una figura che mi sembra aver già visto da qualche parte “Ciao sono m.n., tu sei elena, quindi?” “sì” un’isterica, adescatrice, con due dita d’acqua negli stivali.

Ripesandoci non è andata così male, quattro uomini in meno di 10 minuti non è da tutte.

martedì 15 gennaio 2008

La borsa e le chiavi

Dal titolo si potrebbe credere un racconto zen, niente di più lontano.
Mi sono sempre chiesta se il problema delle chiavi nelle borse sia un problema personale (mio) o universale che riguarda cioè più o meno tutti.
Ieri notte, ero sulla strada di casa, stavo rientrando a piedi e dall’altra parte della strada, sento e vedo delle persone che avevano bevuto un po’ troppo, ho pensato che sarei stata più al sicuro oltre il click del cancello, e senza compiere movimenti bruschi, allungo la mano nella borsa che porto a tracolla, per cercare le chiavi del cancello e di conseguenza quelle di casa.
Scontato affermare che non le abbia trovate, e che una volta davanti al cancello, mentre in testa era iniziata la proiezione dei trailers di tutti i film dell’orrore degli ultimi 20 anni, abbia dovuto svuotare la borsa oggetto per oggetto, chiamando in causa tutto il turpiloquio di cui sono capace, e che le chiavi siano state l’ultima cosa esatta che ho trovato.
Le chiavi sono sempre stato un problema di famiglia, che penso di aver ereditato direttamente per linea materna da mia nonna, che, nel periodo d’oro, aveva una media di un mazzo di chiavi perso ogni 20-30 giorni, è stata azionista di alcuni falegnami, che venivano interpellati all’occorrenza, e del ferramenta del paese.
Tutto sommato non mi ricordo di aver perso molte chiavi, però mi è capitato più volte di chiudere la porta di casa lasciando le chiavi all’interno, dimenticate sul tavolo o dentro la tasca del cappotto, che dovevo indossare e poi per un cambio di programmi non ho messo. Queste tristi esperienze mi hanno portato a imparare un mantra da recitare ogni volta che esco di casa “Chiavi, chiavi, ohm, inspirare, espirare; chiavi, chiavi ohm, inspirare, espirare; chiavi, chiavi ohm..” e devo dire sembra dare buoni risultati.
La mia afflizione sono le chiavi in quanto tali dentro alle borse in quanto tali.
Ho pensato di eliminare, in successione, diverse tipologie di borsa, attribuendo a queste la causa delle mie disperazioni: zaino, borsa media capienza, borsa media capienza con tasche, busta di plastica, busta di stoffa, borsa piccola capienza, altra borsa piccola capienza, borsa capienza infinitesimale.
Lo zaino è stato soppresso a causa dei troppi spazi, troppe tasche, taschine, cerniere, e aveva l’aggravante di essere nero, di giorno oltre alle chiavi nascondeva anche tutto il resto, di notte era impossibile usufruire dello spiraglio di una luce riflessa di qualche lampione.
Per quanto riguarda le borse di media capienza, in una le chiavi avevano preso l’abitudine di nascondersi dentro all’agenda, o tra i fili dell’auricolare del mp3, nell’altra avevo deputato a sacra custodia delle chiavi una tasca chiusa con tanto di zip, quest’idea di logistica è rimasta insita nella mia persona per circa una settimana, dopo è iniziato il periodo anarchico insurrezionalista, una continua lotta, alla ricerca.
Ho sperimentato il periodo minimalista, modello busta della spesa. E posso certificare che non funziona, le comuni buste di plastica si tagliano, una volta ho scoperto, in extremis, che le chiavi stavano fuoriuscendo, silenziosamente, da un taglio laterale; le buste di stoffa presentano invece due handicap, sono profonde, tanto che il braccio sembra inghiottito in un buco nero durante la ricerca, e in più si scuciono, ripresentando il vizio del modello in plastica.
Le borse di capienza piccola e infinitesimale, anche loro hanno l’abitudine di nascondere le chiavi, e poi sono completamente inutili, perché tutte le volte nasce il dilemma, porto l’ombrello o l’agenda? Mp3 o burro cacao?
Per capire la gravità della situazione, è esemplificativo un esempio, una sera, prima di tornare a casa dal lavoro sono passata a fare la spesa al supermercato, uscita con due buste piene e pesanti mi sono diretta verso casa; lungo il cammino ho pensato che non avrei avuto assolutamente voglia di mettermi a cucinare, e così mi sono fermata in pizzeria. Mentre aspettavo che la mia funghi senza mozzarella cuocesse, mi è balenato un pensiero razionale: sarebbe saggio prepararmi con le chiavi di casa pronte all'uso. Così dopo la solita manfrina della ricerca nella borsa, le trovo e le metto nella tasca del piumino. Riprendo le mie buste, mi carico il cartone della pizza, arrivo davanti al cancello di casa, allungo la mano nella tasca destra, non le trovo, non demordo, con la stessa abilità del giocoliere, faccio passare le buste e la pizza sull’altro braccio e sull’altra mano, cerco nell’altra tasca. Niente. Cioè non niente, un insieme di oggetti che mi nascondono le chiavi e me ne impediscono l’estrazione.
Una tragedia; ripensandoci mi sale la stessa rabbia e le stesse lacrime di stizza.
Per farla breve ho dovuto posare le borse per terra, creare una specie di piano d’appoggio per il cartone della pizza, recitare il mantra "Chiavi, chiavi, ohm, inspirare, espirare; chiavi, chiavi ohm, inspirare, espirare; chiavi, chiavi ohm..”che si dice funzioni anche in questi casi, e procedere nell’ispezione.

lunedì 14 gennaio 2008

Scelte di campo


Cidrolin o Duca D’Auge?
Cidrolin o Duca D’Auge, non è solo una scelta di campo, è scelta di vita.

Quando, anni fa, mi fu proposto il quesito, non seppi o meglio non volli scegliere.
Mi comportai come se la mia non scelta tra le due opzioni fosse un’estrema scelta di libertà, una strenua e, con il senno di poi, inutile diffesa nel rifiutare i soliti schemi imposti.

venerdì 11 gennaio 2008

Nessun dorma



Per fortuna oggi è venerdì.
Non che sia una cosa rara, infatti in tutte le settimane c’è il venerdì.
Ma il VENERDI’ è uno stato mentale, una condizione di vita.
Se, 200 anni fa, esisteva Il sabato del villaggio (non solo come lirica, ma anche come ideologia) oggi la società post-rurale, post-industriale, post-boom economico, ha Il venerdì dell’universo impiegatizio.
Il venerdì, dal dipendente medio, viene vissuto come il giorno dell’uscita per buona condotta dal carcerato medio. Un senso di aspettativa che rasserena l'intera giornata, un’illusione di libertà, purtroppo provvisoria.
In ogni caso, la mia esigenza di VENERDI’, deriva soprattutto dal bisogno di una dormita; per intenderci una di quelle dormite dove il protagonista principale è disteso sul letto e assume una posa plastica simile a uno scendiletto di pelliccia di pecora.
Sono un po’ di mattine che faccio più fatica del solito a svegliarmi, che, quando suona la sveglia, mi dico “ancora cinque minutini”, il diminutivo serve a farmi capire che i minuti devono essere pari a una porzione di tempo veramente infinitesimale.
Però, nonostante le mie auto raccomandazioni, nonostante i miei buoni propositi e le mie dotte e profonde riflessioni filosofiche sul tempo, mi riaddormento, e mi risveglio, almeno dopo venti minuti buoni di sonno tormentato e colpevole. E anche le poche volte che non mi sono riaddormentata, rimango sdraiata, incapace di assumere una posizione eretta; sono come attratta da una forza misteriosa che dal materasso si irradia intorno al mio corpo.
A proposito, una volta, avevo visto un film di fantascienza, la terra era stata praticamente invasa dagli extraterrestri, e dagli ufo usciva una specie di raggio luminoso, e anche un po’ rumoroso, che toglieva la forza alle persone, facendole cadere come frutta matura dai rami. Più o meno la sensazione che provo, al suono della sveglia, è quella di una pera matura, estremamente matura, su un albero.
Tornando al venerdì, in queste ore di non ancora fine giornata, pregusto l’immenso piacere di un paio di mattine senza il solito drin drin della sveglia.

mercoledì 9 gennaio 2008

L’importanza di una canzone



E’ importante avere una canzone? Qual è il valore aggiunto di un rapporto che ha “la nostra canzone”?
Come tutti i problemi esistenziali, il dilemma nasce un po’ per caso.
Sei con i colleghi sul bus navetta che ti porta al lavoro, e la radio trasmette una canzone. Solitamente quello che trasmette la radio la mattina ha lo stesso impatto sulla coscienza delle macchine sull’altra corsia, le vedi passare, e ti lasciano indifferenti.
Poi c’è una mattina particolare, e succede che qualcuno chieda “Ma che canzone è questa?”, e qualcun altro risponda “Sai, questa è la canzone mia e di cosino! Descrive quello che è stato il nostro rapporto”.
Premesso che il dubbio di conoscere il titolo della canzone, esigenza primaria che ha mosso la domanda, comunque rimane, perché la risposta non è stata esaustiva, attinente al desiderio di conoscenza espresso; questo tipo di risposta ha il potere di scatenare i dubbi su chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando?
“La nostra canzone” è un atteggiamento un po’ ambizioso, in che senso “nostra”?
Io ho una coppia di amici che possono dire di avere la loro canzone, in quanto come regalo di nozze hanno ricevuto una canzone scritta e musicata apposta per loro, e suonata in anteprima il giorno del loro matrimonio. Loro possono dire di avere la loro canzone, ho visto il momento esatto in cui gli hanno consegnato la pergamena con le parole e gli accordi della canzone. Ed è loro perché non è di nessun altro, la possono ascoltare quando vogliono e farla ascoltare solo a chi vogliono loro, e nessuno può arrogare la pretesa di fare propria questa canzone.
Io non ho mai avuto una “nostra canzone”, e poi cosa mai avrei dovuto farci con la mia “nostra canzone”?
Lasciarla ai figli quando cresceranno.
Ascoltarla sempre nei momenti di intimità? Sapessi che noia, e poi dicono della routine della vita di coppia, hai voglia, oltre agli stessi rituali, anche la stessa colonna sonora che viene riprodotta in loop in sottofondo.
Oppure, insano pensiero, la “nostra canzone” avrebbe potuto essere la suoneria per il cellulare (avete presente la musichetta de Lo squalo, ta – tan, ta –tan, ta –tan).
Altrimenti molto più terra terra, la “nostra canzone” potrebbe essere adoperata per favorire la lacrimazione, far venire gli occhi lucidi e languidi tutte le volte che la si ascolta e rendere partecipi i presenti a questo grande rituale di sentimenti.
Data la mia incompetenza in materia, deduco, che la scelta della “nostra canzone” sia vincolata a certi parametri specifici, ad esempio il testo deve essere leggero o narrare di travagli e dolori? E la melodia sicuramente non potrà essere troppo simile a Sympathy For The Devil. Ma quando si decide di fare divenire una certa canzone, proprio la “nostra canzone”?
Subentra un meccanismo simile alla scelta del nome da dare al cane, al gatto, ai figli, con tanto di semifinali, finali, coinvolgimento degli amici, tramite sondaggi demoscopici?
O, è più un guardarsi negli occhi sulle note di una musica, e dallo sguardo d’intesa che ne scaturisce, scoprire che è proprio quella, la canzone del cuore, quella che accompagnerà i sospiri del futuro più prossimo?
Sospesa come in una bolla a mezz’aria, assorta in queste mie profonde riflessioni, ho sempre più la certezza che non avrò mai una mia “nostra canzone”, troppo impegno, i soliti compromessi, e soprattutto il terrore di scoprire, dopo tutta questa fatica, di aver scelto la “nostra canzone”sbagliata.

martedì 8 gennaio 2008

Elucubrazioni solipsistiche



Stamani, uscendo di casa, per un attimo, ho avuto come un senso di spaesamento, sapevo di trovarmi in un determinato luogo ma non lo riconoscevo, lo sentivo diverso.
La nebbia sotto la linea gotica non è molto frequente, tutt’altro, e la sua presenza, come tutte le cose non abituali, crea smarrimento, perché fa perdere i punti di riferimento soliti.
La nebbia sembra cambiare i connotati alla città, in meglio e in peggio.
Uscendo di casa, anche se non lo guardo quasi mai, soprattutto la mattina quando ho ancora stampato in faccia il segno del cuscino, ho il cupolone che sporge tra i palazzi, e quando l’aria è particolarmente tersa, chiudendo un occhio e allungando l’altro braccio si ha l’impressione di toccarlo. Stamani invece, l’orizzonte era di gran lunga più limitato, la strada sembrava finire entro il limite della visibilità, dopo di che, era come se sparisse in un baratro biancastro e indefinito, una specie di entrata in un altro-quando.
Se abitualmente, la fotografia scattata dagli occhi ha un campo lungo, una angolazione che abbraccia l’insieme, il generale; con la nebbia si mette a fuoco il particolare, il primo piano. La nebbia è concettualmente simile ai film orientali, quelli che spaccano il particolare, e forse è anche per questo il senso di estraneamento che si avverte. Forse la nebbia non è altro che una differenza culturale, e come tutte le differenze per essere almeno capite, non dico apprezzate, ha bisogno di tempo.

lunedì 7 gennaio 2008

Still single

Oggi ho finito presto il mio lavoro, e non ho assolutamente voglia di iniziare una cosa noiosissima che mi prenderà quasi 2 mesi, così ho fatto un giretto su internet. Chissà come si faceva, anche solo una quindicina di anni fa, negli uffici senza internet? Non riesco a capacitarmi.
E per darmi un’aria da donna impegnata, mi sono messa a sfogliare i giornali stranieri on line Lavanguardia, The sun (che di solito è generoso di notizie gossip, anche se sono nomi e facce per lo più sconosciute) ecc. Oggi però l’attenzione si è focalizzata su approfondimento di The Times “50 reasons why you’re still single”, loro sì che sono avanti e sicuramente avranno risposte convincenti e esaustive alle mie infinite domande.
In realtà non è un vero e proprio articolo, bensì una lunga lista, e visto che i singles possono essere sia uomini che donne, le ragioni si dimezzano a 25 per sesso.
La premessa non è incoraggiante: della serie ti sei mai chiesto perché, anche la collega, quella fatta a fisco e con la voce nasale, è fidanzata e invece tu passi le sere da sola a limarti le unghie e modellarti le sopraciglia?
In un primo momento, avevo deciso di prendere in considerazione solo i consigli rivolti alle donne, poi da una veloce lettura ho riscontrato che quelli rivolti agli uomini sono più divertenti, e così ho pensato valesse la pena tradurre anche qualche consiglio per i maschietti “so tutto io”. Ma visto che si è fatta una certa, e non ho molto tempo a mia disposizione (la mia permanenza in questi locali è vincolata a un bus navetta, dopo di che sarò data per dispersa) lascio in lingua originale la lista completa che è abbastanza immediata e intuitiva, mentre i casi più impegnati, possono essere affrontati come un costruttivo esercizio di lingua inglese.

MEN because you...
1 Wear side-buckle shoes
2 Use the word “chillax”, as in “chillax, babe”
3 Use the word “babe”
4 Have glow-in-the-dark stars above your bed
5 Have nothing but a broken sandwich toaster, a camp bed and a 60in plasma screen in your flat
6 Believe that certain things are self-cleaning
7 Wear short-sleeved shirts in the summer, but are not a postman
8 Wear a duffel coat in the winter, but are not Paddington Bear
9 Have “Thug Life” tattooed across the back of your neck
10 Have sold your forehead to an internet advertising agency
11 Affectionately address your friends as “stinker”
12 Prefer the “fist bump” when meeting strangers, and always insist they “lock it in”
13 Have knees that chafe
14 Regard the in-flight meal as the highlight of any flight, or holiday, for that matter
15 Own a pair of Crocs
16 Are only gay when you’re drunk
17 Stand for the national anthem
18 Refuse to remove your Bluetooth headset before making love
19 Throw baked beans at people who tease you
20 Shave your legs “for sporting purposes”
21 Have ever taken more than one mobile-phone photograph of your genitals
22 Have telephoned in a late-night radio dedication
23 Have a stuffed parrot on your shoulder
24 Believe all worthwhile women are under 25
25 Have a name for it

WOMEN because you...
1 Have a calendar stuck to your wall with pictures of babies in plant pots
2 Have a “lucky” thong
3 Have more than zero stuffed animals on your bed
4 Still use scrunchies
5 Are described by your friends as “mad!”
6 Are described by your friends as “Samantha”
7 Know all the words to Mariah Carey’s Hero
8 Have written poetry in Costa Coffee
9 Use the expression “defo”
10 Have an extremely long nail on one of your little fingers
11 Have ever got corn rows on holiday
12 Get visibly angry if people don’t get what you’re trying to mime in charades
13 Spell your name with a “y”, where there should really be an “i”, as in “Clayre”
14 Dot your “i”s with a circle
15 Posed with your cat for your Facebook profile photo
16 Have a five o’clock shadow
17 Have bought yourself a Ginsters All Day Breakfast Roll
18 Write in coloured ink and/or use smiley faces in handwritten letters
19 Think the energy crisis can be solved with crystals
20 Will not relinquish control
21 Spend all your time with your best friend and her husband
22 Own 27 volumes of Now That’s What I Call Music!
23 Have mistakenly given yourself “wedding hair”, thanks to overzealous use of curling tongs
24 Have said, “Oh my God, you’re a Gemini?”
25 Own a pair of leather trousers

C’è vita nel pianeta lavoro



Allora esistono? Il mondo del lavoro quindi non è solo ingiustizie, bocconi amari, sfruttamento.

E’ solo un trafiletto, su un giornale di oggi, che oltretutto non ha neppure larga diffusione da Genova in giù, eppure sarebbe degno di essere messo in prima pagina.
Un imprenditore marchigiano ha voluto provare a vivere, per un mese, con lo stipendio di un suo dipendente, e ha scoperto di rimanere senza soldi molto prima della fine del mese.
Certo sono sicura, che in qualche modo si sia preparato alla differenza di stile di vita, limitando e ridimensionando consumi e spese magari per lui abituali e banali. Però ha avuto modo di constatare che anche per un’esistenza più francescana lo stipendio da dipendente non era sufficiente (l’esistenza da francescana si profilava da abituale commensale della caritas).
I risultati dell’esperimento hanno portato a un aumento di 200 euro netti in busta paga a ciascun dipendente.
Niente male come inizio di un nuovo anno.

domenica 6 gennaio 2008

Certi giorni

Ci sono giornate che sai già dalla sera precedente che non si metteranno bene. Oggi è una di queste giornate.
Razionalmente provo a ricercarne una causa, ma non mi viene in mente nulla, razionale vorrebbe essere anche il percorso per portarmi fuori, da questo stato d’animo. Risposta scontata.
Per giunta mi dispiace non aver ricevuto neppure un augurio di felice befana.

Sarà che a me la befana è stata sempre stata simpatica, era la tipa che in estremis, quando i giochi erano fatti, portava un regalo inatteso. Per questo quando mi davano della befana l’ho sempre preso come un complimento, e poi quando ero piccola, avevo un libro che proponeva immagini di una befana strafiga (oddio strafiga non è il termine più appropriato riferito a un libro per l’infanzia) comunque un bel pezzo di donna, che per una sera, si conciava male, con tanto di neo peloso sul naso, per andare a lavorare su una scopa volante.

Porto sempre con me, nonostante i numerosi traslochi, un libretto di ricette per gatti, 25 modi per cucinare un topo, che anni fa mi fu regalato il giorno della befana, da un mio amico. E’ un libro divertente, con disegni colorati che mettono il buon umore, e utile; è sufficiente, infatti, sostituire all’ingrediente topo, gli ingredienti manzo, pollo, carne in generale, e si hanno ricette semplici da tutto il mondo. L’unico motivo per cui l’ho trasportato, imballato, inscatolato sempre con me è per la dedica: “Le befane i regali li fanno, quindi non mi restava altro che regalare qualcosa al tuo gatto. Con affetto”. Forse un buon piatto di topo jambalaya…

sabato 5 gennaio 2008

Tecniche di attracco


Ieri sera, mentre stavo aspettando l’autobus, completamente presa nei miei pensieri, sento una voce alle mie spalle. Voce maschile, non mi sembra di conoscerla, mi giro, vedo le labbra che continuano a muoversi, ma non ne ho percepito i suoni che sono emessi. Mi sembra educato chiedere cosa abbia detto, errore fatale!!!

“Sei qui da tanto?”. Questo è l’audio della domanda che non avevo recepito.

Sicuramente il mio sguardo da serial killer, gli ha suggerito la riformulazione in un:“Scusi, è da molto che aspetta il 46?”.

In questi casi la risposta non è importante, quello che importa è il tono, anzi il grugnito di guerra che fa riecheggiare un abominevole “NO”.

Era da po’ che non mi capitava di essere attraccata in questo modo, e pensavo fosse ormai una tecnica desueta, finita insieme agli ultimi film di Alvaro Vitali, Bombolo e Giovannona Coscia Lunga. Ma, se invece questa metodologia sussiste al passare degli anni, e delle mode, significa che ha una certa percentuale di successo; significa che qualcuno ha trovato la sua anima gemella, affinità elettive.

Per un po’ di tempo, mi sono sentita una calamita per casi umani, mi capitava di imbattermi in personaggi alquanto disturbati, che senza alcun motivo si sentivano in dovere di dare sfogo a tutto il loro repertorio di frustrazioni, logorrea, performance sentimentali.

Una volta, mentre stavo lavorando, una persona, che conoscevo perchè frequentava abitualmente il luogo di lavoro, più vicina ai sessanta che ai cinquanta, si avvicinò e mi disse che gli avevo ispirato una poesia. Dopo qualche giorno, mi venne a chiedere se avesse potuto leggermi la poesia, da me ispirata e a me dedicata, (altro errore fatale) gli risposi affermativamente. Passati altri giorni, si presentò con tanto di quaderno verde scuro, e sedutosi davanti a me, iniziò la lettura del componimento, che tralasciando l’argomento, che era ispirato alla mitologia del mio nome, e l’aspetto stilistico, era lunga oltre 30 pagine. Non so cosa si aspettasse da parte mia. Da quella volta cercai sempre di evitare anche solo lo sguardo.

Però l’episodio forse più eclatante, perché avevo coinvolto una specie di task force, per aiutarmi a identificare e smascherare l’autore, è di un paio di anni fa. Mettendo in moto la macchina per tornare a casa dal lavoro, una sera, trovai tutti i vetri e gli specchietti esterni scritti. “Ti amo” “Mi hai fatto male” “Io e te per sempre” “Ti voglio bene” “Non lasciarmi”. A distanza di tempo mi viene da ridere, ma quella sera, ne fui terrorizzata.

I giorni seguenti, sguinzagliaia tutti gli amici, che avevano preparato trappole, escogitato eventuali piani d’azione e soprattutto di fuga (non ho amici che fanno lotta greco-romana). Lo scrittore incompreso colpì altre due volte. Poi decise di cambiare macchina.

(I fatti sono un po’ diversi e più complessi. Fu fatta una denuncia. Però voglio ancora credere nella buona fede delle persone).

venerdì 4 gennaio 2008

Cercasi disperatamente sosia


Un famoso, almeno credo, francamente però non l’ho mai sentito, ma non sono molto addentro al genere, calciatore di origine brasiliana, annuncia querele a un suo sosia, con aggravante gay, che si mostra in giro, in alcune foto, nudo. Sembra una delle tante notizie della rubrica: “ma che ce frega, ma che ce importa” eppure ha una sua ragione d’essere…presa in considerazione.
Domani iniziano i saldi invernali, e non c’ho un euro in tasca. Giuro, a riprova, poco fa ho elemosinato gli spiccioli per comprarmi i tarallini, tasto 21 del distributore aziendale. Anzi, per dirla tutta, sono sotto per via dell’affitto, ma ho visto un piumino, leggermente avvitato, con una specie di tessuto elasticizzato sui fianchi, con cappuccio imbottito, color prugna che sarebbe perfetto sul mio incarnato, senza dire che il modello sembra fatto su misura per me, un vero capo ele-style; ho visto inoltre un paio di stivali, di pelle morbida e resistente, neri, che vanno un po’ su tutto e non passano di moda (forse, però con il piumino prugna sarebbero più indicati di un altro colore) con un tacco giusto, quello cioè da indossare il giorno in ufficio, però fa la sua porca figura anche la sera, il modello sicuramente potrebbe valorizzare la mia falcata elegante e cittadina; ho visto anche un paio di jeans, taglio maschile, più scuri che chiari, con delle pieghine spettinate sotto le tasche anteriori, e il passacintura interno foderato con un tessuto simile al raso e di colore verde smeraldo da abbinare con una camicia in seta cruda dello stesso colore; per finire con un paio di guanti nuovi, in pelle, foderati di lana, ché da qualche giorno non riesco più a trovare quelli vecchi. Tirando le somme, non sono tante cose, e poi costituisco il guardaroba base della giovane donna, che tracolla, ma non molla.
Ritornando a qualche riga sopra, non avendo a disposizione l’importo necessario, e al momento neanche un petroliere o un qualsiasi presidente della repubblica follemente innamorato di me, pensavo di entrare nei negozi, fare man bassa e spacciarmi come sosia di me stessa. Una furba impostrice che si finge me stessa e compra a mia insaputa, con la carta di credito, sottrattami con l’inganno, e che mi lascia nei guai, con lo scoperto in banca. Non è un’idea geniale?
Passato qualche giorno, potrei querelare la misteriosa sosia e chiedere i danni morali, per aver letto le iniziali del mio nome su tutti i giornali, rei di avermi accusato ingiustamente di truffa.
A questo proposito: cercasi sosia, disposta a interpretare la parte della tuffatrice. Massima serietà, ricompensa assicurata, no perditempo.
Dura la vita di una giovane donna.

giovedì 3 gennaio 2008

Piccoli equivoci senza importanza

Succede sempre così, stai sgranocchiando un pezzo di torrone, bianco con le mandorle, e ti chiama il direttore.
Il cestino sotto la mia scrivania ha raccolto lo poltiglia biancastra che avevo in bocca, lo so è una scena raccapricciante, le occhiatacce dei colleghi hanno sottolineato la mia riprovevole azione.
Ma non è stato sufficiente, infatti, nonostante la sorsata d’acqua, trangugiata, dopo deviazione strategica, davanti al bidone dell’acqua, tra gli incisivi sono rimaste tante bricioline di mandorle.
Le sento con la lingua, sembrano gigantesche, provo, sempre con la lingua, che strumento fantastico, a toglierle, a spostarle. Ma niente sembrano incollate.
Non sono sola, e non posso mettermi le dita in bocca, e la tecnica del bordo di foglio passato con indifferenza sulle labbra, è troppo sputtanante.
E così, entro nella stanza, con i denti sporchi. Unica soluzione rimanere seria, non sorridere mai, tanto meno ridere. Ma pensandoci bene, c’è poco da ridere.